Vignettista, illustratore, grafico, umorista, pittore, io sono un po’ tutte queste cose, ma se devo riassumere la mia attività in una parola, io sono un CANTASTORIE COL PENNELLO.
Da bambino vivevo con la matita, anzi la penna a biro in mano, e disegnavo sempre folle di personaggi in movimento; il mio idolo era Benito Jacovitti.
La mia è un’arte schiettamente figurativa. Non mi viene naturale pensare un quadro senza la presenza di almeno una PERSONA (umana o animale che sia).
Anche nei miei lavori più “onirici” o “romantici”, in cui spesso hanno il sopravvento gli elementi della natura, il mare la notte la pioggia l’uragano, essa, anche se marginale stilizzata e ineffabile, deve comunque sempre esserci. Anche lì, seppur accennata, si narra una piccola “storia” umana. Persino quando devo disegnare degli oggetti, a scopo pubblicitario o didattico, se posso li faccio “animati”.
Questa insopprimibile esigenza di raccontare, in genere nasce dopo una “visione”. Cioè prima immagino e compongo sulla tela un bozzetto fatto di linee, volumi, macchie, figure grezze che abbia una certa armonia, un certo movimento; posso essermi liberamente ispirato a uno scorcio cittadino, a una spiaggia, agli avventori di un bar, a una stanza con la finestra aperta, etc.. Quando sento che questa composizione “funziona”, comincio delinearvi i personaggi, e la “storia” viene fuori da sé. A volte invece, quando mi viene richiesto un soggetto ben preciso, seguo il procedimento opposto, parto dalla “storia” e cerco di comporla alla mia maniera.
Il mio tema più ricorrente è quello dell’eterno dualismo tra l’Uomo e la Donna, tra il Maschio e la Femmina, i due poli del mondo, che si attraggono e si respingono, in cerca di un equilibrio ideale. E sempre precario.
Esso viene raggiunto raramente (persino nelle mie numerose rappresentazioni del tema degli Sposi) poiché l’elemento femminile è il più delle volte preponderante e onnipresente. La Donna è una figura archetipica, muta, ambigua, sfuggente, il Grande Motore Immobile del Cosmo, sempre al centro della scena.
Il Maschio invece è una figura più evanescente, a volte buffa o addirittura grottesca. È lì che le gira sempre attorno, ma i suoi tentativi di entrare nel misterioso mondo femminile, di conoscerlo e di possederlo, sono goffi e velleitari, destinati raramente a un successo solo apparente, e comunque fugace. In queste situazioni affiora sempre, in modo più o meno visibile, l’elemento giocoso, fiabesco e ironico del mio carattere.
Prediligo cogliere le situazioni in una fase intermedia, sfumata e implicita, dove le cose stanno (forse) per accadere o sono (forse) appena accadute.
Col colore invece vado giù deciso, con tinte piene, sature, esplicite; mi diverto a far interagire le tonalità del fondo con quelle della superficie, facendo giocare i colori caldi con quelli freddi.
Il quadro lo costruisco direttamente sulla tela o sulla tavola: stendo prima un fondo colorato, poi “disegno” il soggetto col pennello usando in genere un solo colore, magari seguendo una precedente vaga traccia a matita.
Uso quasi sempre la tecnica ad olio. Lo adoro perché è caldo, profumato, morbido e “saporito”, permette una pennellata fresca, sia fluida che materica, ma permette anche di cambiare idea, di continuare a sovrapporre altri pensieri, altri colori, altre pennellate, anche a distanza di settimane o mesi.
Spesso le mie sono scene viste dall’alto, come se fossero riprese con un obbiettivo grandangolare da un uccello in volo o dal soffitto di una stanza, con visioni prospettiche anche dilatate e non realistiche. Questi lavori fanno parte di un filone che io chiamo “LA MOSCA SUL MURO”.
Oltre a quella tra Maschio e Femmina, o tra il Me e il Tu, mi è molto cara anche la dialettica “Uno-Tutti”, cioè il rapporto tra Me e gli Altri, tra il singolo e la società.
Rappresento scene affollate, ambientate nelle situazioni più svariate, con tutti i personaggi di contorno che guardano verso quello in primo piano perchè ai loro occhi sta facendo qualcosa di strano o insolito..
Il più delle volte la scena è ripresa “in soggettiva”: il protagonista è fuori dal quadro; è dunque lo spettatore stesso che guarda il quadro ad essere l’oggetto di questi sguardi insistenti, e prima ancora di lui io stesso mentre lo dipingo. In questo modo penso di interpretare una condizione in cui chiunque possa riconoscersi.
Chi di noi non si è mai sentito inadeguato o fuori posto?
O non ha mai avuto la sgradevole sensazione di avere addosso gli occhi di tutti? Per molte persone ciò accade quotidianamente.
Questi quadri fanno appunto parte del mio filone più recente, che chiamo quello dei “PESCI FUOR D’ACQUA”; essi sono un’occasione per fare anche dell’”umorismo ambientale”, cioè della satira di costume sui diversi ambienti sociali.
Mi diverto a sbizzarrirmi nel trovare le facce e le espressioni più giuste per tutta la gamma di questi personaggi, da cui viene fuori la mia vena espressiva più autentica, che è quella, diciamo così, di un “espressionismo all’italiana” nel senso più positivo del termine:
Un forte cromatismo, giocato sui contrasti tra caldi e freddi ma dove l’espressività, la stilizzazione e le deformazioni grottesche convivono con la piacevolezza e la morbidezza del gusto italiano, caldo, sensuale, amante della vita, senza l’asprezza, le spigolosità e il ricercato gusto per l’orrido di certo espressionismo tedesco.
Questo stile lo applico anche quando rappresento gli ANIMALI, altro tema per tanti motivi a me molto caro. Essi sono quasi sempre presenti nei miei lavori.
Anche se da bambino ho sempre vissuto in mezzo ai cani, Il mio soggetto preferito è il GATTO, che incarna perfettamente l’alter ego del protagonista umano, oppure di volta in volta una sua trasfigurazione, o uno spiritello malvagio lì in agguato, o la sua cattiva coscienza, o il semplice spettatore che guarda perplesso e commiserevole quello che stanno combinando gli umani.
Ma non è sempre soltanto un comprimario, ho fatto molti quadri dedicati solo a lui. Partendo da lavori di tipo illustrativo e “di genere”, sono passato ad uno studio più approfondito dell’espressione e del carattere dei miei personaggi felini, fino a sconfinare in un misurato antropomorfismo nel ciclo di dipinti chiamato “LE GATTIVERIE DI JOHN BETTI”.
È bello fare il cantastorie, perché le storie non finiscono mai, ne vengono fuori sempre di nuove, e quelle vecchie col tempo acquistano nuovi aspetti e nuovi significati. Le mie cerco di non raccontarle mai per intero:
uno non deve necessariamente arrivare alle mie stesse conclusioni guardando un mio quadro, ma deve potersi trovare sulla sua stessa lunghezza d’onda. Deve sentire che tra quei segni, quei colori, quelle espressioni c’è qualcosa che lo riguarda. E della “storia” che vi legge, quindi, è lui, se vuole, quello che deve scrivere il finale più appropriato.